Redazione Online
BARI | Può una donna straniera perseguitata dalle istituzioni del Paese d’origine non trovare ospitalità in un Paese «libero» e garantista quale dovrebbe essere l’Italia? E l’Italia, attraverso le sue istituzioni democratiche e repubblicane può subordinare i diritti umani, quali diritti fondamentali di ogni individuo, la vita e la libertà di una donna, per di più moglie di un italiano, per ragioni di opportunità bilaterali? La storia che vi raccontiamo ha dell’incredibile: una donna saudita conosce un italiano, lo frequenta, si innamora, decidono di sposarsi e di vivere insieme. A Riyadh, capitale dell’Arabia Saudita, il paese più conservatore del mondo (l’unico in cui le donne non possono guidare l’auto, né provare un vestito in un centro commerciale perché non esistono camerini di prova «rosa»), il padre di Layla (useremo nomi di fantasia, ndr) si oppone al matrimonio con Antonio, italiano di Bari, perché avendo origini nobili, per la mentalità conservatrice di Riyadh, non può assolutamente concedere alle figlie di sposare un uomo che non sia «saudita» e «nobile» nella stirpe. «Mio padre è un importante avvocato ─ ci racconta Layla ─ molto vicino a Re Abdullah», l’attuale sovrano che proprio due giorni fa ha festeggiato il suo ottavo allegiance cioè anno di seduta al trono.
Una storia travagliata, quella di Antonio e Layla. Lei, 35 anni, a 26 conosce un pugliese e si innamora. Doppia nazionalità saudita e britannica, dottoressa in Letteratura inglese, dalla tipica carnagione scura, alta, magra, occhi a mandorla e dai lineamenti delicati, è determinata a rimanere in Italia col marito e ancora oggi non si sente tutelata dalle leggi italiane, e dal ministero della Giustizia, il quale potrebbe rispedirla a casa per «cortesia internazionale». Ma andiamo con ordine.
LA STORIA DI ANTONIO | Antonio vive a Bari. È disperato. Da giorni tenta di contattare le associazioni umanitarie per i diritti umani, le istituzioni, il Parlamento, nel tentativo (difficile) di sapere che c’è qualcuno che si interessa alla sua famiglia. «Le donne saudite ─ dice ─ hanno difficoltà enormi». Una donna di Riyadh non può sposare un uomo di Jeddah, che seppur sia una città dell’Arabia dei Saud, negli anni è diventata crocevia di persone, razze, culture, e la presenza di siriani, giordani ed egiziani sul territorio ha «distrutto» gli alberi genealogici, dando origine ad una mescolanza di etnie. E questo è ciò che a Riyadh si vuole scongiurare. Una donna d’alto lignaggio non avrà mai il nulla-osta del padre per sposare un cittadino (anch’esso di Riyadh) se questo fa parte della media borghesia. Figuriamoci un cittadino di Gedda. Figuriamoci un italiano. «Un matrimonio senza il consenso del padre non è ritenuto valido».
MENTALITÀ ARABA? NO, SAUDITA | A Riyadh accadde, in un episodio analogo, che una donna e un uomo (entrambi sauditi), ma di cui solo la prima in possesso del «cognome», abbiano deciso di sposarsi. Il padre di lei, dal cuore grande, acconsentì. I due ebbero anche due figli. A un certo punto il papà di lei, che come detto aveva dato il benestare, muore. A Riyadh succede il finimondo. Dal fratello fino all’ultimo dei procugini della sposa tutti si sentirono in diritto di andare presso la Corte per invalidare il matrimonio. Il giudice, in taluni casi, si prostra alla volontà del potente, avvallando la validità del divorzio. La motivazione fu che l’altra parte della famiglia non fosse «socialmente compatibile». Insomma, dal matrimonio forzato si passa a un concetto nuovo: il «divorzio forzato». Esattamente il caso di Antonio e Layla. Il padre di Layla, che la figlia ha tentato in tutti i modi di convincere, invano, prima di tutto l’ha fatta «rapire» (essendo vicino alla famiglia reale dei Saud) quand’erano al Cairo, in Egitto, per sposarsi con rito islamico, alla presenza di testimoni, e con l’avvallo della Corte egiziana.
Layla, per poter raggiungere l’Italia da sposata, formalizzare il matrimonio presso l’ambasciata italiana al Cairo, dovette procurarsi un documento di attestazione del suo status di «nubile». Fu un atto necessario. Antonio, per via del lavoro, dovette tornare qualche giorno in Italia. Consapevole del fatto che solo il padre poteva procurarle quel documento, Layla decise comunque di fare un tentativo: telefonò in ambasciata saudita, le dissero di non preoccuparsi, che poteva andare a ritirare il documento. Fu una trappola: raggiunta la sede diplomatica fu depredata di ogni effetto personale (documenti, cellulare), messa in auto, portata in aeroporto al Cairo e messa a forza sul primo aereo per Riyadh. Al suo ritorno, ad aspettarla al King Khalid International Airport della capitale c’erano il padre e un funzionario dei servizi segreti sauditi. Quest’ultimo, dopo averle sequestrato il passaporto, lo consegnò al padre dicendogli di chiuderlo a chiave in banca, affinché lei non potesse fuggire. Il passaporto le sarebbe stato restituito a patto che sposasse chi il padre avesse deciso per lei, ma non prima di aver messo al mondo almeno un figlio. Persino il viaggio di nozze avrebbe dovuto fare entro i confini sauditi.
L’ITALIA NON RISPONDE, IL REGNO UNITO SÌ | Layla ha paura che non rivedrà il marito. Il passaporto saudita sequestratole non le consentirà di abbandonare il Paese. Essendo nata a Londra, grazie al marito (che nel frattempo ha contattato varie associazioni per i diritti umani) riesce ad ottenere un passaporto alternativo, britannico, dalla corona inglese che l’ambasciata londinese a Riyadh in pochi giorni le ha fornito. Da cittadina con doppia nazionalità, tuttavia, per il Regno dei Saud non puoi lasciare l’Arabia senza avere passaporto saudita. Considerata la situazione di estremo pericolo e di grande disperazione della donna, una sua amica ha ritenuto di aiutarla, regalandole il suo passaporto che non fu falsificato. Con quello la donna è riuscita a superare i controlli di polizia aeroportuali, e poi tramite il passaporto britannico a raggiungere l’Italia passando per Londra e riabbracciare il marito.
LA DENUNCIA | Le pressioni sono continuate da parte del padre anche nei confronti delle figlie minori e delle amiche, per le quali ogni mezzo di comunicazione è stato messo sotto controllo. Anche per loro è stato fatto divieto di lasciare il Paese. Una violenza che avrebbe dovuto indurle a convincere Layla a ritornare spontaneamente in Arabia Saudita. È il 2009: il padre comunica alla figlia che tornerà a Riyadh con la forza, con l’ausilio dell’Interpol. Layla, terrorizzata, non ce la fa più. Nell’aprile 2010 i due coniugi decidono di rivolgersi ai carabinieri, i quali le fanno una serie di domande con l’ausilio di un’interprete, formalizzano la denuncia e mettono tutto a verbale.
ARRESTATA E PORTATA IN CARCERE | È l’episodio più grave. Non bastassero le pressioni dei familiari, qualche giorno fa, durante un viaggio a Forlì, in Emilia Romagna, la polizia ha fatto irruzione nella stanza in cui i due coniugi pernottavano. Pistole alla mano, i due sono stati tenuti sotto tiro, e solo dopo qualche minuto e continue rassicurazioni si è riusciti a stemperare la tensione. Ma la donna è stata arrestata per «falso documentale» (per aver aggirato i controlli col passaporto dell'amica), nonostante l’esposto fatto ai carabinieri, ed è stata tradotta in carcere quasi fosse il peggiore criminale. In cella è stata condotta seguendo le normali procedure, quelle per i delunquenti ordinari, e lì ci è rimasta per ben 4 giorni, dal 26 al 30 aprile, assieme a spacciatrici, ladre, assassine.
LA VICENDA GIUDIZIARIA | Layla è assistita dall’avvocato Simone Trombetti del foro di Bologna. Davanti alla Corte d’Assise d’Appello il Presidente ha ritenuto di disporre la scarcerazione e di rimetterla in libertà. Ma la donna (dal 6 maggio, ndr) è ristretta nella città in cui è domiciliata col marito, e per 60 giorni non potrà muoversi. Il giudice non ha fatto altro che applicare la legge, optando per il mantenimento della misura cautelare ma dalla difesa si evincono buone speranze che tutto si risolva per il meglio. Tuttavia resta la possibilità che la donna, su richiesta dell’Arabia Saudita possa tornare indietro seppur non esista un trattato di estradizione esplicito fra i due paesi. «L’atteggiamento del ministero della Giustizia non esclude la possibilità di non opporsi alla richiesta di estradizione ─ spiega l’avvocato ─ e un trasferimento della donna nel suo Paese avrebbe delle gravissime conseguenze». Insomma, il pericolo è che l’influenza internazionale del Regno Saudita possa penalizzarla sulla base della cosiddetta «cortesia internazionale». La donna potrebbe essere barattata, consegnata quasi fosse una merce, al padre, in cambio di favori, forte del fatto che l’Arabia sia una superpotenza economica. Uno scambio «commerciale» che potrebbe sacrificare la vita di una donna in cambio di una partita di petrolio.
ASSOCIAZIONI UMANITARIE | Al momento il caso è al vaglio di due associazioni per i diritti umani. La britannica «Forced Marriage Unit» che si oppone ai matrimoni forzati (nel 2012 l’associazione ha registrato 1.485 casi) e l’italiana «Umanità senza frontiere» che si occupa di tutelare i diritti umani delle donne e dei bambini. Sul web una petizione ufficiale per la raccolta firme: http://firmiamo.it/no-all-estradizione-di-sarah-in-arabia-saudita. «Spero nell’Italia alla quale chiedo di darmi protezione» è la richiesta di Layla. Italia e Arabia Saudita, intanto, si preparano a festeggiare 80 anni di relazioni diplomatiche. Il 9 maggio scorso, nella sede della Farnesina, sua eccellenza il Principe Mohammed bin Saud bin Khaled, vice ministro degli Affari Esteri dell'Arabia Saudita per l'informazione e la tecnologia si è incontrato col suo omologo italiano, il vice ministro degli Esteri, On. Lapo Pistelli (autore del libro Il nuovo sogno arabo dopo le rivoluzioni, Feltrinelli).
Un colloquio nel corso del quale si sono affrontate diverse tematiche incentrate sugli accordi riguardanti le solenni celebrazioni che il Regno intende organizzare a Roma in occasione dell’80esimo anniversario delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi amici. All’incontro hanno preso parte anche Saleh Mohammad Al Ghamdi, ambasciatore del custode delle Due Sacre Moschee e il dott. Saleh Al Namlah, vice ministro della Cultura e dell'Informazione per le Relazioni Internazionali e, da parte italiana, alti dignitari della Direzione Centrale Paesi Mediterraneo e Medio Oriente del Ministero degli Affari Esteri italiano. Successivamente, l’ambasciatore ha organizzato una colazione in onore di Sua Altezza il Principe e della delegazione saudita al seguito. Ma quella che dovrebbe essere una festa, in realtà, potrebbe trasformarsi in un incidente diplomatico. Layla lo sa: «Tornare in Arabia ─ dice ─ significa rinunciare alla mia libertà e dignità personali».
Martedì 7 maggio 2013
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